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Impronte sulla neve

29 Marzo 2015

Ritrovarsi a camminare sulla neve.
Ho appena riletto le pagine dell’anno scorso, quando proprio non c’era stato verso, come si dice. Quest’anno invece la neve c’è stata, eccome. C’è ancora.
Percorri un vecchio sentiero, lasciando l’asfalto. C’è il sole, il vento è rimasto dietro la costa del canale, come i bambini che si nascondono dietro a una porta per farti uno scherzo quando passi. E anche noi, in effetti, quando sentiamo il vento a Cattaragna facciamo finta di essere sorpresi… Inizi a salire piano, un po’ perché non c’è fretta, un po’ perché dopo tante settimane in città c’è la possibilità di essere fuori allenamento. Un passo dopo l’altro, sulla neve, su rocce lisce e scoperte e muschio dove il sole ha già scaldato abbastanza. Ma è sufficiente qualche curva, un paio di canali ancora e sei salito di qualche metro. E non resta altro che neve.
Pensi di essere solo, che non ci sarà passato nessuno di sicuro. E in effetti le prime e uniche orme che ti lasci alle spalle sono proprio le tue. Davanti il bianco è uniforme, nuovo. Almeno per qualche decina di metri. Poi succede qualcosa. Ti accorgi che non sei veramente solo come pensavi.
Impronte, tante impronte che attraversano il sentiero, lo seguono per qualche tratto, a un certo punto si allontanano e se ne vanno, giù per un costone oppure su, in alto, oltre a un gruppo di ginepri imbiancati e fieri.
Impronte di ogni tipo, e ti accorgi che non le sai distinguere. O che riesci a riconoscerle poco e male. Ti tocca scattare delle foto per poi andare a cercarle a casa, su internet, e capire a quale animale appartengono.
Non è che si diventa montani veri solo perché si cammina su un sentiero o perché sei di Cattaragna da cinque o sei generazioni e oltre…
Tracce a forma di “Y”, le zampe anteriori che si appoggiano una dietro l’altra, le posteriori che si posano sempre davanti alle anteriori. A gruppi distanziati da balzi. È una lepre di sicuro, che si muove nel suo percorso irregolare, torna sulla strada già percorsa, cambia spesso direzione. Tutto per depistare eventuali malintenzionati (a quattro o a due gambe, si potrebbe dire…).
Magari tra i malintenzionati potrebbe esserci una volpe, tracce simili a quelle di un cane, ma che si differenziano per le dita parallele e i segni più lunghi lasciati dalle unghie.
Si continua a camminare, a prendere il ritmo, a sentire meno la fatica. A scambiare quattro parole comprensibili con la tua compagna di viaggio, senza il fiatone che ti aveva zittito all’inizio. Slacci il giubbotto, primo strato di sette o otto che ti sei messo perché “in montagna non si sa mai”, ma si dovrebbe sapere che se si cammina si suda.
Nella neve, sul sentiero scoperto che costeggia un piccolo bosco, tante piccole tracce di scoiattoli. Si muovono a salti, le zampette anteriori che si posano una vicino all’altra, aperte; e quelle posteriori, anche loro con le dita allargate, toccano terra appena davanti alle anteriori, a volte leggermente all’esterno. Piccoli animali che, per non rivelare la posizione della propria tana su un albero, percorrono lunghi tratti sui rami prima di saltare a terra, passando di pianta in pianta.
Ti rendi conto che le tue nozioni sugli animali che vanno in letargo e su quelli che non ci vanno sono davvero molto carenti. Prosegui.
Dopo l’ultimo casone, quello dei Bufolli, ancora in piedi, entri nella pineta, in mezzo a fusti alti e maestosi, che si lasciano muovere dal vento e alcuni scricchiolano, strusciando uno contro l’altro, tanto che sembra un cigolio, o un lamento (aiuto!). Sul morbido tappeto di aghi marrone chiaro, per l’occhio inesperto nessuna impronta.
Nel cammino verso la cima, si ritrova la neve, destinata a non abbandonarci più, nel giro che prevede di arrivare al sentiero dei casoni di Castagnola e scendere poi verso il paese.
Altre tracce. Alcune già viste (le famiglie del monte stanno diventando sempre più numerose), altre sono nuove. Come quelle sottili sottili di qualche uccellino, che sembrano disegnate con la punta di una matita. Poi incontriamo un capriolo, che prima di andarsene ci lascia le sue coppie di impronte, distanziate di una trentina di centimetri perché poggia le zampe posteriori quasi sulle orme delle anteriori. Gli speroni si vedono solo se corre, altrimenti restano sollevati.
Mentre siamo arrivati in cima alla salita e ci sediamo per mangiare un boccone, rifletto sul fatto che non siamo soli. Su come la natura si stia riprendendo il proprio spazio, che le era stato tolto con tante fatiche dai nostri padri e i nostri nonni. Il bosco e la montagna ritornano ai propri abitanti, quelli che erano qui molto tempo prima di noi e che speriamo continuino ad esserci anche dopo.
Penso alle vecchie cartoline di Cattaragna degli anni cinquanta e mi immagino di vedere il paese e la montagna dall’alto. Penso ai terreni coltivati o a pascolo, che allora occupavano tutto lo spazio che la montagna aveva ceduto controvoglia, a prezzo di grandi sacrifici e di braccia instancabili. Ora, in quell’immaginaria veduta aerea, la parte coltivata è stretta intorno al paese e non lo circonda neanche, gli orti sono piccole chiazze quadrate in mezzo al colore dell’incolto, che varia ad ogni stagione, come gli pare.
Allora mi immagino che sia una contrazione proprio come quella del cuore, che si allarga e si stringe, continuamente. E quando si stringe è per caricare un altro battito, per spingere ancora sangue in tutto il corpo. Dare un altro impulso alla vita.
E quindi spero che questa contrazione delle nostre colture sia solo la preparazione di una nuova spinta, di una nuova energia, di una nuova stagione che sia vita per i nostri monti.
E che un giorno le impronte degli animali, nella neve, si mescolino ancora a tante impronte di uomini, proprio come una volta.
Alla fine di tutto, appare chiaro che sono montano perché sono nostalgico e malinconico. E sorridente, felice di essere a casa, tra i miei monti.
Buona Pasqua a tutti!

Maurizio Caldini

Boschi