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Passaggio di testimone

21 Marzo 2013
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Un nuovo anno inizia. E’ giusto guardare avanti: la quotidianità che ci aspetta ogni mattina, nuovi progetti a cui pensare, quello che potremo o non potremo fare. Il 2012 è finito da qualche tempo, i bilanci li abbiamo già conclusi e probabilmente abbiamo accantonato i dodici mesi ormai trascorsi, tenendoci qualche immagine ancora fresca per i ricordi di domani. A Cattaragna l’anno si è chiuso con un altro lutto, qualcuno se n’è andato e in questo nuovo anno sarà un altro volto che non rivedremo, e cambierà l’idea di Cattaragna che abbiamo in mente. Perché è vero che un paesino sulle montagne è fatto dalle sue case, dagli angoli che conosciamo, dai suoi boschi, le rocce, da ogni luogo che risveglia in noi i ricordi di una vita: ma soprattutto una piccola comunità è composta da persone, e sono le persone a rendere preziosa la comunità stessa e ad arricchire la sua memoria collettiva.

Pipàna

Pipàna

 Vorrei ricordare Giuseppe Cervini, “Peppino” o “Pipàna” come lo abbiamo sempre chiamato, che se n’è andato (o, come diciamo noi Alpini, “è andato avanti”) nel periodo di Natale. Non vorrei che queste righe fossero un ricordo postumo o un necrologio. Credo che però sia giusto ricordarlo per quello che ha rappresentato per tanti anni, insieme alla moglie Caterina, per tutti noi e non solo.

Fino a un paio di lustri fa, l’osteria è stata il centro del paese, il punto d’incontro per tutti. Parlo dei tempi in cui le nostre madri e le nostre nonne andavano a fare spesa nello spaccio, là dove c’era un po’ di tutto, una disposizione degli articoli in vendita che sicuramente aveva un senso, ma che a me è sempre sfuggito: merce disposta in gran parte sugli scaffali dietro il bancone, qualche pila di roba a terra, come le cassette di frutta o altro, un frigorifero grande e sempre spento, messo lì come una credenza a contenere le stecche delle sigarette; la tapparella abbassata che, anche d’estate in pieno pomeriggio, lasciava la stanza in penombra e al fresco. Poi la bilancia a due piatti con i pesi di metallo, l’affettatrice.
E poi l’osteria, gli stessi ambienti delle foto del matrimonio dei miei genitori nel ’67: il bancone di legno, i tavoli per giocare a carte, quello in fondo, oltre l’angolo della stufa a legna, con la tovaglia di plastica a fiori. Prima o poi racconterò la storia di un pomeriggio di Santo Stefano, un pomeriggio in cui quel tavolo con la tovaglia a fiori è stato assoluto protagonista. Quanti anni abbiamo passato all’osteria, oppure fuori, seduti sul muretto dell’arbio o sui travi! Quando andavamo a Cattaragna dalla città, non eri veramente “arrivato su” se non eri andato a fare un giro all’osteria “a vedere chi c’è”.

E all’osteria c’erano sempre la Caterina e Peppino, che avevano anche l’unico telefono del paese. D’estate, in una cabina talmente ermetica che, se chiudevi bene la porta, avevi una manciata di minuti di autonomia, prima di perdere conoscenza per un principio di soffocamento. Forse era una scelta ponderata, perché le sere d’estate la coda per telefonare era lunga e le chiamate dovevano essere brevi. Nelle altre stagioni, per telefonare andavi in casa al piano di sopra, suonavi il campanello, e di solito era sempre ora di cena. Ma Peppino e la Caterina ti accoglievano sempre con un sorriso, lasciavano il posto a tavola (magari la minestra ancora calda) e ti facevano chiamare. Poi c’erano i gelati per tutta l’estate, e ai Santi qualcosa da finire dell’ultima fornitura, anche se era necessario sapersi accontentare. Ma allora eravamo ancora capaci. Peppino non aveva il carattere tipico per fare l’oste: diffidente con il forestiero, almeno per il primo o il secondo incontro, a volte di poche parole, spesso molto pratico ed essenziale. Ovviamente tutto il contrario della Caterina, in una legge non scritta di compensazione che evidentemente funziona sempre. Forse era proprio questo suo modo di essere a caratterizzare meglio il personaggio, perché se fai l’oste sei un personaggio pubblico a tutti gli effetti. E questo suo modo di fare, le battute spesso inconsapevoli, hanno generato una serie di aneddoti che hanno accompagnato le serate di quelli della mia generazione fino ad oggi, e credo che ce li racconteremo divertiti anche in futuro.

Ecco, nel mezzo di un dolore così grande come il distacco, penso ci sia consolazione nell’idea che un nostro congiunto sia ricordato con un sorriso anche negli anni a venire. Certo, d’ora in avanti ci sarà una punta di malinconia, in fondo ai nostri racconti o alle imitazioni dei momenti più divertenti che abbiamo vissuto, o che riportiamo da racconti di altri. Però non sarà una presa in giro irrispettosa: sarà un modo per tornare a quei momenti, a un divertimento puro e innocente, a un passato che ci teniamo nel cuore perché accende il ricordo dei nostri anni più belli. Personalmente, di Peppino mi tengo anche qualche sguardo rubato degli ultimi anni, un gesto di delicatezza rivolto a uno dei suoi piccoli e adorati pronipoti: quando quelle “manone” adatte più per “‘u piccu”, il piccone, oppure “pr’u sighirein”, per l’ascia, o per “‘a sàppa”, la zappa, per qualche istante sono diventate piuma, per distribuire delicatezza e affetto.

Quando l’osteria ha chiuso, ormai una decina d’anni fa, onestamente pensavo fosse il segno di un declino irreversibile per Cattaragna. Ricordo una notte di San Silvestro, proprio a mezzanotte, con la neve fresca per la strada. Eletta ed io, allora fidanzati, con la bottiglia di spumante appena stappata e i bicchieri, attraversavamo il paese gridando “buon anno!” e non c’era nessuno, e le uniche orme sulla neve erano le nostre.

Poi è successo qualcosa, qualcuno ha avuto la voglia e il coraggio di “mettersi in moto”, e oggi ho il privilegio di raccontarvi che cosa facciamo al circolo, come è bello avere un posto dove ritrovarci, il fatto che “non sei veramente arrivato a Cattaragna se non vai a fare un giro al circolo a vedere chi c’è.” Negli anni tra il 1928 e il 1930 circa, quando erano in costruzione la diga di Boschi e la centrale di Ruffinati, di osterie in paese ce n’erano addirittura tre, sembra impossibile anche solo a raccontarlo; settant’anni dopo abbiamo appreso con tristezza la notizia che l’ultima avrebbe chiuso; oggi ci affacciamo sull’anno appena iniziato pensando alle attività dell’estate al circolo, alla marcia dedicata a Giancarlo, un altro amico che, insieme a Ricchëin e Peppino, l’anno scorso ci ha salutato per l’ultima volta.

Tutti ci lasciano un’eredità, che possiamo scegliere di accettare o rifiutare: portare avanti la vita del paese, che è fatta dalle esistenze di ognuno; trasmettere il ricordo di chi non c’è più a chi è arrivato dopo, a chi non ha vissuto gli anni che abbiamo vissuto noi. Ma questo testimone che, pensando proprio al circolo, ci è stato passato in particolare da Peppino, non deve essere vissuto come un peso o una responsabilità: dev’essere percepito come un dono, un’occasione per arricchirci come individui, esseri umani tra gli esseri umani, nel senso pieno del termine, generando momenti di aggregazione, gioia di stare insieme, far nascere la voglia e il coraggio di andare avanti in quelli che verranno dopo di noi.

Nel nostro paese. A Cattaragna.

Maurizio Caldini

[Pubblicato su Montagna Nostra nr. 1 / 2013]